Quando si parla di OpenAI, è come assistere a un cambio di pelle in tempo reale, una trasformazione che sta ridefinendo il suo ruolo, non solo nella tecnologia, ma nel mondo degli affari e dell’etica. Quella che una volta era conosciuta principalmente come una nobile non-profit, dedicata alla ricerca etica e disinteressata sull’intelligenza artificiale, ha completato un passaggio epocale: è diventata a tutti gli effetti una macchina for-profit, un’entità commerciale con ambizioni enormi.
Ristrutturazione OpenAI: equilibrio tra business e responsabilità etica
Non è stato un salto nel vuoto, ma una manovra attentamente orchestrata. L’azienda ha creato una sorta di doppia personalità: da un lato c’è l’OpenAI Group PBC, il ramo commerciale che può correre libero nel mercato, raccogliere capitali e vendere prodotti come ChatGPT. Dall’altro lato, a fare da “coscienza” dell’intera operazione, resta la OpenAI Foundation, la parte non-profit originale, che detiene quote del gruppo per un valore stimato incredibile, circa 130 miliardi di dollari. Questo assetto è la chiave di volta: permette a OpenAI di essere flessibile e aggressiva sul fronte commerciale, ma la lega indissolubilmente alla sua missione etica e di sicurezza, che resta la responsabilità della Fondazione.
La strada per arrivare a questo punto non è stata liscia. Ci sono voluti mesi di trattative, il via libera di enti regolatori in California e Delaware, e persino il superamento di resistenze interne. Pensate a Elon Musk, uno dei fondatori storici, che è sempre stato un critico acceso di questo modello commerciale e ha espresso le sue preoccupazioni. Alla fine, però, la struttura si è consolidata: la Fondazione si dedicherà a progetti a lungo termine e di grande impatto sociale – come la ricerca medica, la lotta alle malattie e la resilienza dell’AI – mantenendo un influenza etica sullo sviluppo tecnologico senza dover gestire direttamente la frenetica attività del ramo commerciale.
Parallelamente a questa ristrutturazione interna, è stato rinegoziato anche il rapporto con il partner più ingombrante e storico: Microsoft. Il nuovo accordo è fondamentale per stabilire le regole del gioco in vista del futuro più grande di tutti, quello dell’Intelligenza Artificiale Generale (AGI). In passato, la famosa “clausola AGI” prevedeva che Microsoft perdesse i diritti di sfruttamento su eventuali modelli post-AGI. Adesso, le cose sono cambiate in modo significativo: Microsoft potrà continuare a utilizzare tali modelli, almeno fino al 2032, garantendosi una fetta del futuro. Inoltre, per evitare che la definizione di AGI diventi una mela della discordia, si è stabilito che dovrà essere concordata con un’entità indipendente. Questo introduce un elemento di trasparenza e verifica che prima mancava e che serve a placare le preoccupazioni sul potere concentrato.
Tuttavia, l’accordo segna anche un parziale allentamento del legame operativo. Microsoft, per esempio, si sfila dallo sviluppo di hardware consumer che OpenAI sta portando avanti con l’ex designer di Apple, Jony Ive. E, cruciale, Microsoft ha ora la libertà di perseguire la ricerca sull’AGI anche con altri partner. In sintesi, OpenAI sta chiaramente marciando verso un futuro più autonomo e commerciale, ma lo sta facendo con delle robuste garanzie etiche e di governance. Questa ristrutturazione non è solo un fatto aziendale; è un capitolo cruciale che cerca di trovare un delicato equilibrio tra la libertà di innovazione sregolata, gli obblighi etici verso l’umanità e il controllo dei partner strategici, mentre l’azienda si prepara a dettare l’agenda dell’AI per i prossimi anni.