Ti è mai capitato di sentir parlare di una storia che ti fa fermare un attimo e chiederti: “Aspetta, ma cosa sta succedendo davvero qui?” È esattamente la sensazione che si prova leggendo ciò che sta accadendo in casa Microsoft. Sì, proprio loro, quelli di Windows, di Teams, di Azure. A quanto pare, non sono solo codice e aggiornamenti: dentro i loro uffici si sta accendendo una discussione accesa, e questa volta non si parla di software.
“No Azure for Apartheid”: il movimento che agita Microsoft
Tutto è iniziato quando un ingegnere ha mandato un’email interna a migliaia di colleghi. Un’email che non chiedeva consigli tecnici, ma metteva sul tavolo una domanda pesante come un macigno: “Il mio lavoro sta uccidendo bambini?” Il riferimento è al possibile utilizzo delle tecnologie Microsoft nelle operazioni militari israeliane a Gaza. E quella domanda, cruda e diretta, ha acceso una miccia.
Da lì, una valanga: proteste interne, firme raccolte (più di 1500 finora), interruzioni durante gli eventi ufficiali, come la conferenza Build o le celebrazioni per i 50 anni dell’azienda. Il movimento si chiama “No Azure for Apartheid”, e accusa Microsoft di fornire infrastrutture cloud che potrebbero essere usate in modo dannoso, senza sufficiente controllo.
La risposta dell’azienda? Hanno bloccato parole chiave e potenzialmente pericolose, secondo loro, come “Gaza”, “Genocidio” e “Palestina” nelle comunicazioni interne. In altre parole, invece di parlare apertamente della questione, hanno preferito… silenziare. E qui nasce la grande contraddizione: Microsoft ha sempre detto di voler sostenere l’attivismo dei suoi dipendenti su diritti civili, clima, inclusione. Ma quando si tocca un nervo scoperto – come una guerra che fa notizia ogni giorno – la libertà di parola sembra diventare meno libera.
L’ingegnere che ha sollevato la questione lo dice chiaramente: “Pensavo che Microsoft fosse la big tech più etica. Volevo costruire qualcosa che aiutasse le persone, non che causasse danni.” E la sua riflessione finale colpisce dritto al cuore: “Un giorno, i miei figli mi chiederanno cosa ho fatto per il popolo palestinese. Spero che perdonino il mio silenzio.”
La questione resta aperta. Non è solo un problema interno a un’azienda. È una domanda scomoda che riguarda tutte le grandi aziende tecnologiche: fino a che punto sono responsabili di come viene usata la tecnologia che mettono al mondo? E quando i dipendenti si alzano in piedi per fare domande, si meritano una risposta. Non il silenzio.