Segnatevi questa data, e ricordatela a vita. Perché il 10 aprile 2019 entrerà nella storia come in passato è successo per il primo lancio nello spazio, i primi passi sulla Luna e le prime esplorazioni su Marte.

Pochi eventi nella storia dell’astronomia sono stati così incisivi come quello avvenuto in queste ore, quando grazie ad una complessa elaborazione delle immagini provenienti da diverse coppie di telescopi, sincronizzati tramite GPS, si è riusciti per la prima volta a vedere un buco nero.

Dopo decenni di teorie, a partire da quelle di Einstein, passando attraverso gli studi di Stephen Hawking (che starà seguendo i nostri timidi ma coraggiosi progressi con occhio benevolo da una posizione privilegiata), finalmente si è ottenuta la prima immagine della storia che ritrae un buco nero.

Precisamente si tratta del buco nero al centro della galassia M87, distante da noi ben 55 milioni di anni luce. L’anno luce, diversamente da quanto si potrebbe pensare, è un’unità di spazio, non di tempo, e corrisponde alla distanza percorsa dalla luce nel giro di un anno. Tenendo conto che la luce percorre circa 300.000 chilometri al secondo, si può calcolare che un singolo anno luce corrisponda a 9 461 miliardi di chilometri. Provate a immaginare di moltiplicare questo numero per 55 milioni: è difficile pensare a una distanza così grande, vero?

Eppure siamo riusciti a raggiungerla, e a fotografare ciò che vi è presente. Questo buco nero ha un diametro di 38 mila miliardi di chilometri, e contiene una massa pari a 6,5 miliardi di masse solari.

Gli interrogativi e le conferme ottenute

Sorge spontanea la domanda: perché si è fotografato il buco nero della galassia M87 anziché Sgr A*, che è quello della nostra galassia?

Il motivo è presto detto, e lo chiariscono magistralmente i colleghi della pagina Facebook Chi ha paura del buio: “Il team di EHT si è concentrato su M87 perché è più “fermo”. Avete mai provato a fotografare qualcuno che si sta muovendo in continuazione? È difficile, vero? Ecco, EHT con Sgr A* ha riscontrato la stessa difficoltà: l’immagine cambiava troppo rapidamente per riuscire a ottenere un’immagine abbastanza nitida. Ma prima o poi ce la faranno, e forse presto scopriremo anche il volto di Sgr A*”.

Da un punto di vista più prettamente scientifico, la straordinarietà di questo evento sta nel fatto che l’immagine ottenuta – per la cui elaborazione sono stati necessari 6 metri cubi di hard disk, per immagazzinare i 350 terabyte di dati al giorno provenienti dai telescopi – combacia alla perfezione con la descrizione di un buco nero finora ipotizzata tramite la teoria della relatività generale.

Osservando l’immagine, infatti, si può distinguere una porzione luminosa da una porzione in ombra. A seconda del tipo di teoria usato per immaginare la composizione di un buco nero, le dimensioni e la forma delle due porzioni cambiano sensibilmente. In questo caso, però, la teoria della relatività generale coincide perfettamente con ciò che è stato osservato, sia per quanto concerne la forma e l’asimmetria dell’anello (la porzione luminosa), sia per la forma dell’ombra (la parte nera centrale).

Questo dimostra che, a più di un secolo di distanza dalla sua enunciazione, la teoria della relatività di Einstein si dimostra ancora estremamente solida. E che l’immagine che ci siamo fatti dei buchi neri, derivante dallo studio della fisica astronomica (come testimoniato dal celeberrimo film Interstellar), è straordinariamente vicina alla realtà scientifica.

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