depressione realtà virtuale
Curare la depressione con la realtà virtuale

Curare i disturbi depressivi con la realtà virtuale. Si tratta di una nuova terapia sperimentale che si avvale di un Avatar per combattere, appunto, la depressione. È quanto si propone di fare un team che ha seguito lo studio presso lo University College di Londra, in collaborazione con la Catalan Institution for Research and Advaced Studies dell’Università di Barcellona.

Secondo i ricercatori, dunque, la realtà virtuale potrebbe essere in grado di aiutare i pazienti che soffrono delle varie forme di depressione a migliorare la propria condizione. E questo grazie ad una mirata terapia di immersione che porta l’individuo ad essere “meno severo e meno emotivo nei propri confronti“.

La cura con la VR

La terapia che il paziente deve seguire richiede almeno tre sedute. Grazie ad un avatar, durante il trattamento il soggetto dovrebbe essere capace di vivere una realtà diversa, in modo tale da ridurre, anche in maniera significativa, i sintomi legati ai disturbi depressivi.

L’esperimento è stato condotto su un campione di 15 cittadini inglesi affetti da depressione. L’età era compresa tra i 23 e i 61 anni. Durante i 45 minuti di sessione terapica, veniva loro richiesto di indossare un casco apposito per la realtà virtuale. Grazie ad esso, dunque, i volontari potevano visualizzare un avatar adulto di dimensioni reali.

Quest’ultimo, in pratica, replicava gli stessi movimenti eseguiti dal paziente che, per parte sua, aveva una percezione simile a quella di trovarsi davanti ad uno specchio. Lo scopo, ovviamente, era quello di indurre il soggetto ad essere meno critico con sé stesso. Tanto che, nella seconda parte del trattamento, compariva un bambino da aiutare e consolare in modo da rendere attivo e partecipo il paziente.

L’obiettivo del team inglese è quello di raggiungere dei risultati adeguati affinchè la terapia clinica possa ottenere i dovuti benefici e, il paziente, percepire il contesto in cui vive in modo meno critico di quanto già non faccia.

La nuova ricerca è stata recentemente pubblicata sulla rivista British Journal of Psichyatry Open.

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