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Il cervello è in grado di riprogrammarsi? La risposta forse è no

Il recente articolo di Tamar Makin e John Krakauer pubblicato sulla rivista eLife ha sollevato domande intriganti e potenzialmente rivoluzionarie sulla nostra comprensione del cervello umano. Gli autori mettono in discussione la concezione ampiamente accettata della capacità del cervello di “rimodellarsi” o riorganizzarsi in risposta a cambiamenti nell’esperienza o a lesioni.

Makin, professoressa di neuroscienze cognitive presso l’Università di Cambridge, e Krakauer della Johns Hopkins University, sottolineano che nessuno degli studi canonici esaminati nel loro lavoro soddisfa in modo convincente i criteri per la riorganizzazione cognitiva. Questo solleva dubbi significativi sulla validità della nostra attuale comprensione di come funziona il cervello.

Il cervello non è in grado di riprogrammarsi?

La base della discussione si concentra sul concetto di riorganizzazione cognitiva. Questo concetto implica che una parte del cervello, dedicata a una specifica funzione, possa adattarsi in qualche modo a svolgere un compito completamente diverso. A tal proposito, gli autori sostengono che l’idea che il cervello sia capace di “ricablarsi” dopo eventi come un’amputazione, la perdita della vista o un ictus potrebbe essere errata.

Krakauer sottolinea che, sebbene le storie di persone che superano tali sfide siano ispiranti, l’interpretazione comune potrebbe essere distorta.

L’esempio di un topo che può ancora muovere un baffo dopo la recisione dei nervi che lo collegano al cervello è citato per illustrare il concetto. Gli autori suggeriscono che la funzione potrebbe non essere stata “ricablata”, ma piuttosto “risvegliata” in nervi circostanti precedentemente sintonizzati su quella funzione.

Inoltre, la loro prospettiva sfida l’idea che il cervello sia capace di adattarsi rapidamente a nuove sfide, come nel caso delle videochiamate su Zoom. Secondo Makin e Krakauer, la manifestazione di nuove funzioni potrebbe essere attribuibile al fatto che non eravamo consapevoli delle capacità preesistenti di quell’area del cervello.

Queste affermazioni provocatorie sollevano interrogativi fondamentali sulla nostra comprensione del cervello e sulla sua plasticità. Se confermate, le idee di Makin e Krakauer potrebbero richiedere una rivalutazione significativa di molte teorie consolidate nel campo delle neuroscienze. Resta da vedere come la comunità scientifica reagirà a questa sfida alla visione tradizionale della plasticità cerebrale e se nuove ricerche supporteranno o respingeranno queste argomentazioni controcorrente.

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Pubblicato da
Margareth Galletta