Smartphone: sindrome da vibrazione fantasma, la malattia della Generazione Z

Se senti vibrare continuamente il tuo smartphone, o sei Chiara Ferragni, oppure hai la sindrome del nuovo millennio. Di cosa si tratta? Ce lo spiega uno studio condotto su degli studenti universitari.

Smartphone: un problema piuttosto diffuso soprattutto negli ultimi anni

Si chiama “Sindrome da vibrazione fantasma” ed altro non è che uno stato d’ansia continuo basato sulla falsa percezione della vibrazione dello smartphone. Non a caso il sinonimo di tale sindrome è il termine inglese “ringxiety”, che unisce “ring” (squillo) e “anxiety” (ansia). Il soggetto affetto da questo problema è convinto di aver ricevuto messaggi su messaggi e per questo si ritrova a controllare il dispositivo svariate volte durante la giornata. La verità è che chi ne soffre ha una vera e propria astinenza da notifiche che arriva addirittura ad alterare i suoi rapporti sociali e sentimentali.

Ma perché tali allucinazioni sono sempre più frequenti nella nuova generazione? Gli scienziati si dimostrano piuttosto titubanti e scettici sulla motivazione. L’ipotesi principale è legata all’uso esagerato degli smartphone, ma anche al nostro continuo bisogno di fare swipe up sullo schermo per non perdere neppure una notifica in arrivo. Questi due fattori avrebbero condizionato il nostro cervello, tanto da portare all’esasperazione diverse sensazioni. Vi è mai capitato ad esempio di scambiare lo sfregare degli abiti contro la nostra pelle, con la vibrazione del dispositivo? Ecco, è esattamente questo il problema.

La psicologia intende, come “attenzione selettiva”, la capacità di concentrarsi solo su determinati suoni nonostante la serie di stimoli interferenti. Trattasi quindi di una ossessiva forma di vigilanza, unidirezionale, che impegna la mente esclusivamente su un tipo di stimolo, portando il resto in secondo piano. L’esempio perfetto è la perdita di attenzione soprattutto nei confronti dei nostri cari, che a differenza degli smartphone non vivranno per sempre. Allora, ne vale davvero la pena?

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